Morfologicamente estesa dal Lago di Garlate a Palazzago, con Calolziocorte, Caprino Bergamasco e Pontida, rispettivamente capoluogo economico, storico e religioso, la Valle San Martino è costituita da un’ampia conca aperta, frammentata in numerose e piccole valli trasversali, poste sul versante sinistro del bacino dell’Adda. Esse, con andamento parallelo, si innestano a pettine lungo il corso del fiume, risultano incassate, tortuose, e sono chiuse nel loro tratto superiore da una catena di montagne che segnano, a settentrione e ad oriente, il crinale dell’Albenza, che separa la Valle San Martino dalla vicina Valle Imagna.
La Val San Martino, per la sua particolare posizione geografica, è sempre stata terra di confine, di transiti e allo stesso tempo punto di contatto tra territori e culture che si sono in essa incontrate, scontrate e compenetrate. Affacciata sulla riva del fiume Adda e lungo l’antica via pedemontana, e perciò terra di cerniera tra la Lombardia orientale e quella occidentale nonché tra il mondo alpino e la pianura, la Valle è stata durante la sua lunga storia teatro d’azione di vari enti cittadini, potentati signorili, istituzioni religiose ed entità statuali di varia natura e provenienza.In un quadro così complesso e articolato plasmato dalle vicende storiche, ma altrettanto originale e proficuo dal punto di vista identitario, il forte legame con la città di Bergamo e la secolare appartenenza al territorio ad essa sottoposto ha costituito nel tempo uno - se non il principale - elemento che ne ha permeato la fisionomia territoriale, sociale e culturale e che fa ancora oggi della Val San Martino, pur in epoca di grandi mutamenti socio-economici ed amministrativi, l’ultima espressione più occidentale della matrice culturale bergamasca testimoniata in primis dalla parlata locale. Attraversata sin dall’epoca preromana dall’antica via che collegava gli avamposti commerciali padani all’area transalpina, il territorio dell’odierna la Valle in età imperiale augustea si configura insieme a al territorio bergamasco come parte integrante della regione XI transpadana. Probabile estremo limite del ducato longobardo di Bergamo, appartiene poi alla corte medievale di Almenno estesa fino all’Adda e sottoposta prima ai sovrani longobardi, poi ai Conti di Lecco e infine ceduta al Vescovo di Bergamo nel X secolo. Nell’XI secolo, la Val San Martino, unitamente ai signori locali maggiori e minori, appare asservita parte al Vescovo di Bergamo e parte al Vescovo di Milano e, a partire dal XII secolo, ospita uno dei più importanti e potenti, cenobi benedettini lombardi: il monastero di San Giacomo di Pontida. Nella seconda metà del XIII secolo incontra l’espansionismo della città di Milano guidata dai Della Torre e, insieme al Comune di Bergamo (che controllava alcuni castelli in Valle) e sino all’età viscontea, rimane sottoposta alla signoria milanese sviluppando però, al contempo, una prima forma embrionale di affermazione e organizzazione autonoma che sfocerà nella comunità di valle intorno alla metà del Trecento, ufficialmente suggellata nel 1435 dall’approvazione degli Statuti di Val San Martino da parte di Venezia. Con il trattato stipulato nell’aprile del 1454, infatti, la Val San Martino passa stabilmente sotto il dominio della Repubblica di Venezia che già da qualche decennio (ovvero dal 1426, con l’adesione di Bergamo) aveva cominciato ad affacciarsi sul territorio nell’intento di occupare Lecco e stabilendo poi il confine sull’Adda con il Ducato di Milano, storico limite occidentale dei domini di terraferma della Serenissima e del territorio bergamasco, destinato a rimanere in vita sino ai giorni nostri. E proprio nei quasi quattrocento anni di dominazione veneziana si alimenta lo stretto rapporto tra la Val San Martino, ormai estesa da Vercurago a Pontida, e la città di Bergamo, che si perfeziona a livello religioso sul finire del Settecento, con il passaggio dalla Diocesi ambrosiana a quella di Sant’Alessandro, e si consolida definitivamente nell’Ottocento con la nascita della Provincia di Bergamo di cui i territori degli attuali sei Comuni del Calolziese sono stati parte integrante sino al 1992, anno di istituzione della provincia lecchese.
La Val San Martino, per la sua particolare posizione geografica, è sempre stata terra di confine, di transiti e allo stesso tempo punto di contatto tra territori e culture che si sono in essa incontrate, scontrate e compenetrate. Affacciata sulla riva del fiume Adda e lungo l’antica via pedemontana, e perciò terra di cerniera tra la Lombardia orientale e quella occidentale nonché tra il mondo alpino e la pianura, la Valle è stata durante la sua lunga storia teatro d’azione di vari enti cittadini, potentati signorili, istituzioni religiose ed entità statuali di varia natura e provenienza.In un quadro così complesso e articolato plasmato dalle vicende storiche, ma altrettanto originale e proficuo dal punto di vista identitario, il forte legame con la città di Bergamo e la secolare appartenenza al territorio ad essa sottoposto ha costituito nel tempo uno - se non il principale - elemento che ne ha permeato la fisionomia territoriale, sociale e culturale e che fa ancora oggi della Val San Martino, pur in epoca di grandi mutamenti socio-economici ed amministrativi, l’ultima espressione più occidentale della matrice culturale bergamasca testimoniata in primis dalla parlata locale. Attraversata sin dall’epoca preromana dall’antica via che collegava gli avamposti commerciali padani all’area transalpina, il territorio dell’odierna la Valle in età imperiale augustea si configura insieme a al territorio bergamasco come parte integrante della regione XI transpadana. Probabile estremo limite del ducato longobardo di Bergamo, appartiene poi alla corte medievale di Almenno estesa fino all’Adda e sottoposta prima ai sovrani longobardi, poi ai Conti di Lecco e infine ceduta al Vescovo di Bergamo nel X secolo. Nell’XI secolo, la Val San Martino, unitamente ai signori locali maggiori e minori, appare asservita parte al Vescovo di Bergamo e parte al Vescovo di Milano e, a partire dal XII secolo, ospita uno dei più importanti e potenti, cenobi benedettini lombardi: il monastero di San Giacomo di Pontida. Nella seconda metà del XIII secolo incontra l’espansionismo della città di Milano guidata dai Della Torre e, insieme al Comune di Bergamo (che controllava alcuni castelli in Valle) e sino all’età viscontea, rimane sottoposta alla signoria milanese sviluppando però, al contempo, una prima forma embrionale di affermazione e organizzazione autonoma che sfocerà nella comunità di valle intorno alla metà del Trecento, ufficialmente suggellata nel 1435 dall’approvazione degli Statuti di Val San Martino da parte di Venezia. Con il trattato stipulato nell’aprile del 1454, infatti, la Val San Martino passa stabilmente sotto il dominio della Repubblica di Venezia che già da qualche decennio (ovvero dal 1426, con l’adesione di Bergamo) aveva cominciato ad affacciarsi sul territorio nell’intento di occupare Lecco e stabilendo poi il confine sull’Adda con il Ducato di Milano, storico limite occidentale dei domini di terraferma della Serenissima e del territorio bergamasco, destinato a rimanere in vita sino ai giorni nostri. E proprio nei quasi quattrocento anni di dominazione veneziana si alimenta lo stretto rapporto tra la Val San Martino, ormai estesa da Vercurago a Pontida, e la città di Bergamo, che si perfeziona a livello religioso sul finire del Settecento, con il passaggio dalla Diocesi ambrosiana a quella di Sant’Alessandro, e si consolida definitivamente nell’Ottocento con la nascita della Provincia di Bergamo di cui i territori degli attuali sei Comuni del Calolziese sono stati parte integrante sino al 1992, anno di istituzione della provincia lecchese.
Paesaggio culturale e identità territoriale: la Val San Martino con Bergamo a difesa della sua piccola e preziosa Heimat
Luca Rota
Il personale contributo alla “causa” del ritorno della Val San Martino all’interno della Provincia – ovvero della futura Area Vasta – di Bergamo vuole essere del tutto scevro (e ancor più distante) da qualsiasi connotazione politica e semmai di matrice assolutamente storico-culturale nonché di senso etno-antropologico e, di rimando, sociologico. Perché, insomma, negare la “bergamaschità” della Val San Martino sarebbe un po’ come non riconoscersi davanti a uno specchio.
Negli ultimi tempi ho lavorato spesso a e per iniziative editoriali legate alla storia, alla conoscenza e alla presentazione del territorio geografico della nostra valle. Se pur non ne avessi già prima bisogno, nell’intenso studio di documenti d’ogni genere ed epoca ho potuto assodare in modo indubitabile il legame del nostro territorio con Bergamo: un legame tanto particolare - essendo la Val San Martino terra di confine e, come tutte le terre di confine, dotata di una propria peculiarità “arricchita” dall’essere parte d’un territorio e al contempo punto di contatto, passaggio, filtro, transito (fisico e metafisico) con un altro: si veda come esempio facile e chiaro il dialetto parlato in valle – quanto, questo legame, solido e riconosciuto. Nel frattempo, per i lavori suddetti e i relativi studi, nonché da profondo appassionato (ed esploratore) del paesaggio in qualità di elemento culturale fondamentale, col tempo sono andato alla ricerca della caratteristica identità territoriale della nostra zona, cercando di delinearne gli aspetti certamente storici ma ancor più antropologici, ovvero di quel rapporto che la gente genera col territorio in cui vive. Come ribadisco, il paesaggio è un elemento culturale: in quanto tale è un principio ineluttabile al fine della generazione della formazione intellettuale, del patrimonio di conoscenze, delle esperienze spirituali e, in generale, del sapere presenti in un dato territorio: della sua cultura peculiare, appunto.
Per tale motivo, il valore culturale del paesaggio è base fondante nonché causa-effetto della caratterizzazione antropologica del territorio in oggetto: ne determina il rapporto tra di esso e i suoi abitanti e quindi la loro storia, la vita quotidiana, le azioni, le relative idee, il benessere, il lavoro, i bisogni e ogni altra cosa assimilabile. È quindi pure un elemento fortemente identitario – ma, attenzione: lo è senza alcuna accezione bassamente ideologica ovvero pseudo-nazionalistica. Piuttosto, come rimarca d’altro canto la stessa antropologia culturale, lo è in senso olistico: noi siamo ciò che siamo anche per ciò che abbiamo intorno, che determina il nostro più prossimo ambito vitale, che stabilisce i personali metri di paragone culturali, estetici, politici (nel senso originario del termine). Un paesaggio degradato in senso antropologico non potrà mai permettere un’evoluzione sociale proficua, anzi, genererà disgregazione sociale e culturale: è il classico effetto dei numerosi non luoghi che caratterizzano le parti più antropizzate del mondo contemporaneo. Nei non luoghi – lo dice la stessa definizione – manca l’identità, dunque manca la possibilità di costruzione della consapevolezza antropologica e sociologica ovvero si creano le condizioni ideali per un processo di alienazione sociale (quella che in sociologia viene definita dissonanza cognitiva o anomia), preludio ad un degrado generale drammatico e difficilmente recuperabile.
Se abitualmente si considerano non luoghi ambiti tipici di zone urbane e, come detto, fortemente antropizzate – esempio classico: i grandi centri commerciali, stando al cui interno si perde la cognizione di “luogo definito” dacché, stante la globalizzazione consumistica imperante, si potrebbe essere a Milano come a Londra o a Hong Kong, senza alcuna differenza – anche territori di diversa specie possono/potrebbero andare incontro a un processo di perdita d’identità: ad esempio proprio quando, a fronte di una connotazione geografica, storica e sociale unitaria e determinata, si operi una disgregazione politica di tale unità che produca sostanzialmente una separazione, se non una negazione, dell’identità locale e quindi un principio di alienazione culturale.
Nella cultura mitteleuropea vi è un termine (e un relativo concetto) assolutamente significativo, in tal senso: Heimat, intraducibile nelle lingue latine se non con parole comunque inadeguate (“casa”, “piccola patria”, “luogo natio”…) e il cui senso è stato in passato purtroppo preso a sostegno tanto strumentale quanto bieco di ideologie oppressive e fanaticamente reazionarie. Nel suo significato originario, invece, esprime un concetto molto bello e, io trovo, pure molto umano: nell’Ottocento la nascente e via via frenetica industrializzazione si accompagnava, soprattutto in Germania, all'esodo massiccio di popolazione dalle aree rurali verso le grandi città, e contemporaneamente l'unificazione politica dello stato germanico comportava il dissolvimento dei piccoli stati in un unico nuovo Stato a egemonia prussiana. L'Heimat venne dunque formulata e interpretata come una reazione all'alienazione e alla perdita di identità della comunità di origine, strategicamente indotte al fine di uniformare politicamente i territori rendendoli, in buona sostanza, più facilmente assoggettabili al potere centrale. Nessuna matrice meramente patriottica o, peggio, biecamente nazionalista, quindi, ma una ferma e precisa volontà di affermazione dell’essenza e del carattere della propria comunità civica in relazione al territorio abitato e reciprocamente armonico.
Posto ciò, credo che ogni territorio dotato d’una propria omogeneità antropologica, storica, sociale, culturale e anche geografica o geomorfologica – come nel caso della Val San Martino – dovrebbe poter e saper formulare un altrettanto proprio concetto di Heimat il quale, costruito poi su ovvie basi storiche comuni con i territori adiacenti, finisca per contribuire alla definizione di una determinata e consapevole identità territoriale, nella quale chiunque possa riconoscersi e possa farlo nel relativo riconoscimento delle diverse peculiarità che la formano e l’arricchiscono.
Non solo: l’identità territoriale che fa riferimento ad una data zona omogenea per storia, cultura, economia e tradizioni, è appunto un elemento fondamentale per la consapevolezza culturale, sociale, civica della gente che la abita, ma lo è anche (mi verrebbe da dire soprattutto) per la sua salvaguardia – e non solo in senso politico (si intenda sempre il termine nella sua accezione originaria) ma pure in senso amministrativo, ambientale, educativo. In parole povere: se si conosce al meglio il territorio in cui si vive, se di esso si possiede la giusta consapevolezza e ugualmente se si è pienamente consapevoli della propria presenza interattiva nel territorio stesso e del conseguente legame identitario (e identificante), inevitabilmente si avrà maggior cura di esso, sotto ogni punto di vista. Dunque: se l’identità di un territorio e della sua gente è considerevolmente forte e ancor più conscia, la preservazione della sua integrità culturale (quindi socio-etno-antropologica) sarà facilmente garantita e per essa tutti sapranno operare al meglio.
Per riassumere: l’uniformità geografica di un territorio è di rimando uniformità culturale, la cui essenza si basa sulle fondamenta storiche e sulla consapevolezza della propria presenza attiva nel territorio stesso, tutti elementi che contribuiscono a generare una forte e virtuosa identità territoriale con capacità di autodeterminazione e autoriconoscibilità nonché coscienza della propria valenza antropologica e, in senso complessivo, culturale. Una tale unità, con siffatte solide basi culturali – ma, vorrei dire, pure umanistiche – la si può preservare (o forse ri-conseguire) soltanto con l’omogeneità rispetto quel territorio e quella relativa Heimat locale dalla quale la Val San Martino si origina e proviene e alla quale, a ben vedere, appartiene totalmente ed è appartenuta anche nel periodo di giurisdizione provinciale lecchese. Di contro, mantenere tale identità locale così necessaria alla buona gestione del territorio all’interno di un’area dotata di caratteristiche sostanzialmente (e giustamente) diverse come quella della nuova Area Vasta con capoluogo Monza, equivarrebbe a (faccio un esempio molto “rurale”!) pretendere di gestire una mandria di capre all’interno di un branco di vacche, e ciò solo perché entrambi gli animali hanno quattro zampe e producono latte. Inutile dire che, invece, c’è bisogno di due “gestioni” diverse dacché le due relative culture d’allevamento (coi conseguenti bisogni) sono diverse: assimilabili quanto si vuole ma comunque differenti – e se accanto c’è un alpeggio sul quale pascolano capre, il portare la propria mandria nel prato accanto insieme alle vacche è cosa quanto meno opinabile, se non proprio illogica!
Insomma, al di là di simpatiche metafore rurali – e chiudendo per non dilungarmi ulteriormente: la mia convinzione è che la conoscenza e la salvaguardia del nostro territorio, con la relativa consapevolezza antropologica e identitaria diffusa anche con valenza di contrasto a potenziali e pericolosi processi di alienazione culturale, è cosa ottenibile senza alcun dubbio attraverso la riaffermazione del legame storico con Bergamo e il suo territorio. Qualsiasi altra soluzione è, fin da subito, un primo passo in direzione di quella citata alienazione, ovvero verso lo svuotamento di senso culturale del nostro territorio del quale finiremmo per essere meri “occupanti”, privi e privati di qualsiasi consapevole legame. E dato che l’essere umano è – sempre e comunque, anche quando non sembra o non vuole farlo credere – una creatura sociale e comunitaria, l’ulteriore passo sarebbe quello di non riconoscere più nemmeno noi stessi, di non saper più dire nemmeno chi siamo: sarebbe una condizione di anomia, appunto, propria di una società allo sbando.
Con Bergamo, quindi, per poterci riconoscere, e per poter continuare a coltivare il nostro peculiare senso civico generatosi in lunghi secoli di “bergamaschità” e pronto a costruire il miglior futuro – locale e non solo - possibile.